21/05/09

Così la sinistra meridionale è diventata antiterrona.

NAPOLI - È da pochi giorni in libreria «Bassa Italia», il nuovo saggio del direttore del Corriere del Mezzogiorno Marco Demarco. Qui di seguito sono pubbli­cati stralci dal primo capitolo.

Talvolta, diceva Totò, ho l’impres­sione che anche i gatti mi guardi­no «in cagnesco». Quanti gatti ci sono in giro? Diciamo la verità: non avvertiamo, noi meridionali, uno stra­no sguardo addosso? La sgradevole sensa­zione di un giudizio che ci precede, di una commiserazione che ci accompagna? L’im­pressione è che sia tornata d’attualità una questione che sembrava morta e sepolta. Di che pasta siamo fatti? È possibile, in­somma, che i meridionali appartengano ad una razza a parte? Molti lo pensano e lo dicono. Altri lo pensano e non lo dico­no. Chi scrive non lo pensa, ma dice che i meridionali hanno molto da farsi perdo­nare, e tra le tante cose anche questa sto­ria della loro diversità, a volte subita, altre esibita, sempre tirata in ballo o per com­piacersi o per giustificarsi. Da qui l’urgen­za di un’autocritica meridionale. (...) Dice bene Gianfranco Viesti, il ragiona­mento che molti fanno è il seguente: «I rifiuti sono Napoli, Napoli è il Mezzogior­no, i rifiuti sono il Mezzogiorno». Ma non c’è da meravigliarsi. Le generalizzazioni antimeridionali hanno radici profonde. Nel Cinquecento i meridionali erano i sel­vaggi della porta accanto, gli abitanti del­le indias de por acà. Prima ancora Rober­to il Guiscardo li definiva caccarelli e mer­daçoli parvique valoris. Diavoli in paradi­so in età barocca, diventano lazzari in quella dei Lumi e dolicocefali nel secon­do Ottocento. Infine, terroni nel Novecen­to delle ultime ondate migratorie. Ogni se­colo un insulto. O giù di lì. Quasi a chiude­re il cerchio di una secolare diffidenza, c’è poi chi offre sul piatto della polemica geo­politica il termine meridios, che almeno stempera il disprezzo nell’ironia. (...)

Il gioco dei pregiudizi e degli stereotipi è universale, si pratica da sempre e in ogni luogo, ma perché è così facile ripro­porlo a danno dei meridionali? Perché può apparire del tutto naturale immagi­narli come una razza maledetta, o come una razza e basta, senza aggettivi? In altre parole, cos’ha in comune la generosa sen­sualità di Sophia Loren con la figura spet­trale di Tina Pica? (...) L’idea di un’autocritica meridionale non è nuova. Nel maggio del 1990, provò a suggerirla Norberto Bobbio parlando di questione meridionale come questione dei meridionali. (...) Il primo dicembre del 2008 ci riprova allora Giorgio Napolita­no, nelle vesti di capo dello Stato. «Se il Mezzogiorno non dà il senso di una forte capacità autocritica - dice il Presidente nel corso di una visita a Napoli - difficil­mente riuscirà ad essere credibile». E allu­dendo al federalismo fiscale, aggiunge: «Non si possono denunciare i rischi e gli esiti infausti di politiche antimeridionali se ci si sottrae a un esercizio di responsa­bilità per quel che riguarda l’amministra­zione della cosa pubblica». Ma si fa pre­sto a dire autocritica. Chi è davvero dispo­sto a praticarla? (...) Ammettere l’ipotesi di un’autocritica meridionale implica, tra l’altro, misurarsi con l’antimeridionali­smo prodotto in casa, con l’antimeridiona­lismo dei meridionali. (...) È l’antimeridio­nalismo che dai positivisti radicali del pri­mo Novecento si spinge fino agli elitari di sinistra dei nostri giorni. Un pensiero, a dirla tutta, che dai sociologi razzisti della scuola lombrosiana arriva fino a certi ge­stori dei partiti personali, passando per i tanti rami di una cultura illiberale e neo­determinista. (...) La «questione razziale» è l’idea che il Sud sia la culla di una razza inferiore per indole, intelligenza e aspetto fisico. Esplo­de, dopo una lunga incubazione, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, e trova i suoi teorici, come Niceforo, Sergi e Lom­broso, quando a circa quarant’anni dal­l’Unità nazionale ci si rende conto che nel Mezzogiorno poco o nulla era cambiato, nonostante la liquidazione del potere bor­bonico. È allora che, in mancanza di me­glio e sull’onda di un incombente pensie­ro positivista, si mettono in campo spiega­zioni che rimandano alla diversità etnica. Niente è più rassicurante, del resto, di una semplificazione assunta come verità. Ed è così che le classi dirigenti antiborbo­niche assolvono se stesse.

Il Sud, ammet­tono, non è cambiato, ma la colpa è del popolo primitivo. Un secolo dopo la feb­bre razziale esplode invece quella elitaria, che a sua volta apre una nuova «questio­ne antropologica». Non più il fatto etnico: questa volta si sottolinea piuttosto l’infe­riorità culturale e civile dei meridionali. La nuova questione antropologica si mani­festa compiutamente a ridosso delle rifor­me istituzionali che avrebbero dovuto ga­rantire l’accesso del Mezzogiorno alla mo­dernità, e a circa quarant’anni, anche que­sta volta, dalla prima di quelle riforme: il varo, nel 1970, delle amministrazioni re­gionali, previste dalla Costituzione e fino ad allora mai istituite. Ancora una volta, quando si vanno a ela­borare i primi bilanci di questa lunga sta­gione di riforme istituzionali, si scopre che, nonostante l’elezione diretta dei sinda­ci e dei governatori e nonostante i partiti personali dei vari leader locali, il Nord re­sta lontano. Irraggiungibile come la linea dell’orizzonte, come l’ultimo gradino di una scala senza fine. A questo punto l’auto­matismo si ripete. Dopo anni di legislazio­ni speciali, di interventi straordinari, di programmazione negoziata, di fondi euro­pei, e dopo la lunga esperienza del diretti­smo elettorale, di sindaci e di presidenti re­gionali eletti direttamente dal popolo, tor­na implacabile la stessa domanda: come mai il Sud non si è sviluppato abbastanza? Si rispolvera dunque il tema della ingover­nabilità dei meridionali. Ingovernabili, si lascia supporre, perché antropologicamen­te diversi. Ed è così che le classi dirigenti, questa volta non più antiborboniche, ma antidemocristiane e postdemocristiane, tornano ad assolvere se stesse. In questa fa­se, la furia polemica del Nord contro un in­distinto Sud, perennemente arretrato e pri­vo di senso civico, finisce paradossalmen­te per favorirle. «Vedete - è la implicita giu­stificazione delle classi dirigenti - è l’incivil­tà diffusa che ci ha frenato». (...)

È opinione comune che le teorie razzi­ste nascano in ambienti conservatori e re­azionari e che trovino un argine nella cul­tura illuministica e progressista (...) Meno indagato è il rapporto tra l’antimeridiona­lismo e l’essere «di sinistra». Come se, nel passato della sinistra meridionale, non ci fossero zone oscure da illuminare e, nel presente, il pregiudizio antimeridio­nale potesse essere circoscritto al fenome­no delle leghe nordiste, particolarmente esposte per l’antropologismo originario di Gianfranco Miglio, e per l’antieuropei­smo, il localismo, l’autonomismo e la di­chiarata ostilità verso gli extracomunitari clandestini. In realtà, la sinistra ha contri­buito, e non poco, al diffondersi del pre­giudizio antimeridionale. Lo ha fatto, pri­ma, con il suo razzismo esplicito e motiva­to, quello di Niceforo e dei lombrosiani, per intenderci, e, dopo, con il suo settari­smo politico, con il suo antipopolarismo, con il suo elitismo sociale, con il suo anti­plebeismo, con il suo moralismo a senso unico, «divisivo», direbbe Galli della Log­gia. E con i suoi sensi di colpa apocalittici per non aver realizzato il paradiso in terra meridionale. Ma più ancora, e negli anni più vicini a noi, la sinistra ha contribuito al diffondersi del pregiudizio antimeridio­nale governando gran parte del Sud e al­lontanandolo progressivamente, nella re­altà materiale e nella considerazione gene­rale, dal resto del paese. E lasciando in eredità una società molto più omologata e rinunciataria di quella trovata negli anni Novanta, quando c’era una forte opposi­zione politica e culturale. Molti sindaci e governatori di sinistra, esaltati nel loro ruolo carismatico dall’elezione diretta, e tutti presi da una sorta di compulsione a consumare fondi pubblici, sono brusca­mente passati dall’antropogenetica del­l’esordio all’antropologia dell’epilogo: dal­la promessa dell’uomo nuovo, che avreb­be dovuto cambiare il Mezzogiorno, all’uo­mo meridionale che così è se vi pare, per­ché niente e nessuno riuscirà mai a cam­biarlo. (...)

Marco Demarco

1 commento:

Anonimo ha detto...

Un siciliano, parlando con un amico:
- Sai, ieri sono stato a Milano. Incontro un milanese, parliamo del più e del meno, alla fine mi chiede: "Di dove sei?" E io: "Sicilia." E lui: "Sicilia dove?" E io: "Palermo". E lui: "A Palermo siete tutti mafiosi!" Allora gli dico: "No, mi spiace, guardi che è un luogo comune del tutto infondato." E lui mi ripete: "A Palermo siete tutti mafiosi!" "No" gli dico io "le assicuro di no, si tratta del luogo comune per antonomasia. I mafiosi sono un'esigua minoranza, le assicuro che la maggior parte dei palermitani sono tutti brave e probe persone." Lui insisteva: "Glielo dico io, a Palermo siete tutti mafiosi!!" Non ne potevo più: "Guardi, se ha intenzione di chiudere così la nostra discussione, faccia pure; ma le assicuro che lei è vittima di una visione parziale della realtà, e se vuole..." E lui: "No, glielo dico io, a Palermo siete tutti mafiosi!" Continuava!! MINCHIA! L'HO DOVUTO FARE AMMAZZARE!!!