Il Sud non è solo i numeri del suo abbandono. Non è solo un dato di emigrazione giovanile. Non è solo un tratto parossistico del fallimento della politica per e del Mezzogiorno. Il Sud è diventato nuovamente il terreno di un racconto che parla di vicende avventurose, di legami “maledetti” e di gente che «sogna la grande città e poi si perde nel traffico». Perché, come scrive Mario Desiati, «i dati sull’emigrazione si trasformano in vite umane, in volti, in facce». E di questo abbiamo parlato proprio con il trentaduenne scrittore martinese di origine (nel senso di Martina Franca), poliglotta (parla inglese, tedesco, ceco e, appunto, martinese) e tifoso del Martina. Perché di questo fenomeno se n’è occupato nel suo ultimo libro-inchiesta Foto di classe (Editori Laterza). E lo ha fatto sotto forma di un racconto di una generazione che tra i “fuggiti”, i “fedeli”, i “mammisti” e i “rimasti” (che sono i capitoli-tipi che si ritrovano tra le pagine del libro) parla di quei giovani «quasi grati al destino di essere andati via». A qualunque costo, fosse anche per fare quello che a casa propria non si farebbe mai. «È questo che non capisco perché se si va via per vivere peggio, vuol dire che l’aria non è buona, che la stessa società è diversa». Già, perché dal Meridione non si parte come una volta per disperazione e con quattro stracci, ma adesso lo si fa con una laurea, se non con un master, e un notebook per compagno. Per questo, agli occhi di un ventenne come di un trentenne, il dibattito della politica di questi giorni sembra non centrare appieno il problema.
Il punto di partenza è una verità strutturale – diremmo storicizzata - ma che si riempie di una novità significativa. «Il Sud è più arretrato. Ma adesso per un motivo in particolare: perché la sua classe dirigente è quella che rende ricco il Nord. E questa è la ragione per cui ho scritto il libro». E qui tornano i dati del rapporto Svimez che fotografa come adesso siano i giovani con una formazione medio-alta ad andare via dalla Calabria, dalla Puglia o dalla Sicilia. Raccontare, quindi, di «migliaia di persone all’anno che vanno su, di cui tante sono poi individualità di successo. E raccontare poi che ciò accade anche laddove ci sono tante aree del Sud dove la criminalità non è così potente: questo fa emergere drasticamente come la grande perdita siano le risorse umane e le idee». Se una certa iconografia dell’emigrazione è cambiata, non è così però con i problemi legati al territorio: «Quei pochi che tornano, però, sono sommersi dall’Italia del familismo, del nepotismo». Ecco il nodo politico. Se non si comprende questo, tutte le politiche di sostegno finiscono per rinnovare sprechi e logiche vetero-clientelari. «Non servono a nulla i soldi a pioggia. Io, ad esempio, sono e continuo a essere un sostenitore del progetto politico di Nichi Vendola sull’immigrazione giovanile: cioè quello di agevolare il ritorno dei ragazzi con delle iniziative legate allo sviluppo nel territorio. Ma questo è un tema scomodo, che non ha colori politici perché è un nodo che tutti i governi non hanno saputo finora affrontare. Paradossalmente l’unico che potrebbe farlo al Sud è la Lega Nord, perché ha una vera vocazione territoriale. Ma è fantapolitica».
Ma cosa è cambiato nelle motivazioni dei ragazzi che lasciano casa? Secondo Desiati, alla base di questo nuovo tipo di emigrazione «adesso vi è una ragione esistenziale prima quasi sconosciuta: sentita cioè dalla mia generazione in poi. Per chi supera i trentacinque anni vi è ancora una certa retorica dell’abbandono e delle responsabilità legate alla propria scelta. Adesso non è più così». Già, ma non per tutti ciò si traduce poi in un successo individuale o nel coronamento di un progetto di vita. Molte volte, infatti, significa lavori precari, mal pagati e spesso neanche coerenti con il proprio percorso. Perché allora si sceglie di non tornare indietro? «Un motivo nuovo è dettato dal fatto che noi siamo i post-“generazione X”, i post-internet: dove, per paradosso, proprio tanta attenzione mediatica e la stessa tecnologia non hanno fatto altro che farti sentire in “provincia”, e tutto questo nonostante si siano accorciate le distanze. Si avverte, cioè, maggiormente di essere “fuori” e di conseguenza il disagio aumenta». Emblematico un esempio raccontato nel libro: «“Io mi sento vivo”, mi è stato detto da un ragazzo che fa il “pr” estivo facendo la fame e preferisce così invece di stare a casa con un lavoro anche più remunerativo». Alla base, quindi, sembra esserci la necessità di nuovi spazi esistenziali. Che in un Sud “bloccato” e stagnante non riescono trovano forma. Ecco perché gli strumenti culturali del vecchio meridionalismo assistenzialistico sembrano insufficienti per interpretare questo nuovo esodo.
Ma, oltre a questo, un’ulteriore novità è emersa anche da un modo diverso di “starci” nei luoghi dove ci si sposta: «La cosa che stupisce è come oggi difficilmente uno si integra nel luogo dove sceglie di andare: adesso le proprie radici vengono mantenute e anche esibite con naturalezza. Io, ad esempio, non sono mai andato da un barbiere romano così come non cambierò mai la residenza». Una nuova generazione che non sembra, insomma, dimentica da dove viene. E che nell’epoca della mobilità si sente intrinsecamente in diaspora. Forse per questo la rabbia verso le istituzioni monta. «Il problema è che il Sud non è ancora una terra del tutto liberata: dalla criminalità, dalle antiche concezioni, ci si muove con grosse difficoltà. E la politica dovrebbe interpretare prima di tutto questo». Ma se la risposta si chiama, ad esempio, un fantomatico partito a vocazione sudista? «Certo pensare che dietro a questo ci siano i protagonisti della stessa stagione di tanti anni fa non volge a suo favore. No, il partito del Sud avrebbe un senso se fosse composto da gente sotto i quarant’anni. Se non è fatto da gente “vergine” non è credibile: un po’ come sta già accadendo».
Alla fine una curiosità. Ma se a questi giovani laureati del Sud un giorno dovessero fare l’esame dell’idioma della terra dove hanno scelto di portare le proprie capacità? «Non diciamo sciocchezze! Ma il dialetto non può essere istituzionalizzato. Perché è la grammatica del cuore. E non è possibile fare l’esame dei sentimenti».
di Antonio Rapisarda (Secolo d'Italia, 06/08/2009)
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