12/10/10

Dal Borbone a Chavez, una visione del mondo diversa (NANDO DICè)

Quando i primati del sud ed il loro “genio creativo” non possono essere cancellati, gli storici italiani li “adulterano” ad uso e consumo degli interessi del nord. Caso eclatante è la ferrovia Napoli-Portici, prima ferrovia d’Italia, frutto di una predisposizione all’industria pesante che il sud aveva e che il nord distrusse. Se, come disse l’avvocato Gianni Agnelli, il ‘900 fu il secolo dei trasporti, era impossibile nascondere la notizia che il primo treno d’Italia non attraversò la pianura padana bensì il litorale di Napoli. Non potendo nascondere questo “smacco” alla loro superiorità, gli Italiuniti hanno deformato l’interpretazione. Alcuni storici spacciano la “Napoli-Portici” non per quello che era, cioè solo il tratto iniziale della linea prevista sino a Taranto in previsione dell’apertura del canale di Suez, ma come un semplice passatempo dei Borbone per raggiungere la reggia di Portici. Si, avete capito bene: la messa in esercizio del primo treno d’Italia non viene inquadrata nell’ottica del pieno sviluppo tecnologico del popolo meridionale. Il ricordo di quell’evento non viene susseguito dall’elencazione delle fabbriche di proprietà meridionale da cui usciva metallurgia pesante invidiata in tutto il mondo. Quel treno non è figlio moderno dei meridionali progrediti e ricchi ma, come cercano in tutti i modi di spiegarci, di uno sfizio da nobili annoiati, giusto per creare un suggestivo contrasto con noi poveri meridionali che invece siamo sempre in cerca del tozzo di pane.



Quest’opinione tende subdolamente a dimostrare che la classe dirigente dei meridionali dell’epoca in realtà non avesse alcuna progettualità e che quindi hanno fatto bene i Savoia a sostituirla. Questa bugia, allo stesso tempo, serve a convincerci che quella linea ferroviaria non era nostra, del popolo meridionale per intenderci, ma del solo inutile Borbone. Il perché di questa volontaria “adulterazione” da parte della classe dirigente italiunita, sta nel fatto che se ci convincono che non avevamo nulla, nulla sono tenuti a darci e che le briciole rispetto al nulla sono già abbastanza. Convincendoci, insomma, che non abbiamo un passato non sono tenuti a garantirci un futuro. Infatti, convinti i meridionali che i treni non erano “cosa loro”, che la Napoli-Portici fosse in realtà un trenino da parco giochi e che “normalmente” i meridionali non sapessero neppure cosa fosse la tecnologia ferroviaria o l’industria metalmeccanica, oggi sono giustificati a costringere gli italiani di Palermo che vogliono andare a Siracusa ad impiegare tre volte il tempo che quelli di Milano impiegano per andare a Roma ed a fargli sembrare “normale” questa assurdità. Il continuo affannarsi “storico” nel ripetere che dopo il primo tratto ferroviario il Piemonte surclassò per quantità di Km di strada ferrata il Regno delle Due Sicilie viene spacciato per progresso. Ovviamente non ci raccontano dell’indebitamento che il Piemonte contrasse con le banche e gli altissimi prezzi, finanziari e umani, pagati in termini di sovranità popolare dal popolo piemontese, non più libero delle proprie decisioni politiche. Nascondere l’indebitamento, per gli storici liberali, è normale, in quanto è normale per i liberali campare di debiti o, meglio, sui debiti altrui. Questo astio nei confronti dei Borbone è giustificato dal fatto che essi rifiutarono categoricamente i piani finanziari e i prestiti vincolanti a poteri bancari a loro indipendenti: non avevano nessuna intenzione di assoggettare il proprio popolo ai voleri delle nascenti e plebee oligarchie finanziarie, fossero anche finanziarie napoletane (solo nel 1857 si aprì una filiale del banco di Napoli a Bari). La comprensione che nulla potesse essere contro o anche al di fuori dal “progresso” perché quel progresso li avrebbe spazzati via non sfiorò i Borbone. Infatti non presero provvedimenti, convinti di essere su un’isola impermeabile fra “l’acqua santa e l’acqua e’mare”. Per questo gli stati democratici dominati dall’alta finanza vennero a “liberare” i meridionali attraverso la guerra “preventiva” chiamata risorgimento di cui i Borbone si resero conto troppo tardi. Quel risorgimento venne a spazzar via uno stato “arretrato” dove sin dal 1815 si pagavano solo 5 tasse[1] e lo sostituì con il “progresso” di ben 24 tasse importate dal Piemonte e l’invenzione di altre 15[2] fra cui la tassa di successione (una pura invenzione dei Savoia). Tenendo conto che da subito i piemontesi abolirono gli usi civici ed applicarono la concezione di proprietà privata di stampo moderno (prima il concetto di proprietà era paragonabile più al concetto che oggi abbiamo del possesso) i Savoia tartassarono “modernamente” la classe contadina meridionale che “moderna” non era, non voleva esserlo, né aveva chiesto di esserlo. Francesco Saverio Nitti[3] e Angelo Manna ci fanno sapere che, prima dell'unità, al sud si pagavano 14 lire l'anno di tasse a testa, dopo l'unità 32. Un bel “progresso”, che nei primi 2 anni di Unità fece aumentare il carico fiscale al sud del 40%, e nei successivi tre, dell’85%[4]. Il concetto di proprietà moderno introdotto al sud con i Savoia ha nel tempo capovolto la gerarchia dei valori: è “il privato” e non più il “pubblico” a diventare prioritario. A questo il Borbone, da buon cristiano. si opponeva ferocemente e per questo venne accusato di essere “anti-moderno”.

L’anti modernità borbonica in realtà era solo una “modernità” diversa e soprattutto non giacobina, che lo poneva a considerare “la proprietà privata come mezzo delle necessità sociali”. I convinti sostenitori della modernità a quasi 150 anni di distanza si ritrovano a fare i conti con “l’odiato n°1 in ispano-america da parte dei liberisti” Chavez, che come slogan nel 2004 urlava con orgoglio “…la proprietà privata deve tenere conto delle necessità sociali”. Hanno potuto trasformare i Borbone, non potranno mai fermare quello che i Borbone rappresentavano.



[1]La fondiaria, l'indiretta (tabacchi, dogana, carte da giuoco, polvere da caccia e sale), la tassa di registro e di bollo, la bonafficiata e le poste. Per alcuni periodi (per esempio dopo la parentesi austriaca) furono decretate altre tasse ma a tempo determinato. La Sicilia aveva un regime fiscale ancora meno oneroso.

[2]Imposta personale,Tassa sulle successioni,Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sull’emancipazione ed adozione,Tassa sulle pensioni,Tassa sanitaria,Tassa sulle fabbriche,Tassa sull’industria,Tassa sulle società industriali,Tassa per pesi e misure,Diritto d’insinuazione,Diritto di esportazione sulla paglia, fieno, ed avena,Sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra,Tassa sulle mani morte,Tassa per la caccia.Tassa sulle vetture.

[3] F.S.Nitti, Il Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, Napolo, 1900,

[4] Roberto Maria Selvaggi: Il Tempo dei Borbone. EdR edizioni, pag, 71

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