Nell’estate di quarant’anni fa, 1970, a Reggio Calabria scoppiò la più lunga rivolta urbana che la storia della nostra repubblica ricordi. Durò sette mesi, da luglio a febbraio, costò vittime, una strage misteriosa sul treno del Sole, e lasciò ferite insanabili. Tutto nacque, come è noto, per il trasferimento del capoluogo di regione a Catanzaro per la nascente amministrazione regionale.
È uscito di recente un testo fotografico e un dvd - Reggio: dalla rivolta alla riconciliazione, pubblicato dalla Gazzetta del sud - con immagini e filmato inediti sui moti reggini, a cura di Mimmo Calabrò. Un testo che ci restituisce il sapore di quella battaglia e di quel clima, al di là del racconto ufficiale che ne fecero i media, in larga parte ostili agli insorti.
La sommossa di Reggio va ricordata per quattro ragioni. Fu la prima rivolta contro le Regioni, esplosa nello stesso anno in cui nascevano, di cui fu battesimo di sangue; fu l’ultima rivolta del Sud, l’ultima insorgenza popolare e populista nel Meridione contro il potere centrale, prima che il Meridione si consegnasse all’apatia o alla criminalità organizzata; fu forse la prima volta che in Italia e nell’Europa libera e democratica scesero per strada contro la popolazione i carri armati, come nei paesi comunisti dell’est. E infine fu l’ultima rivolta di popolo capeggiata dalla destra, una destra rivoluzionaria, nazionalpopolare e sindacalista che agiva ai bordi dell’Msi, della Cisnal e lambiva in modo trasversale altre forze politiche. Non solo esponenti interni al potere e ai partiti, ma anche movimenti estremi di destra e di sinistra, se si pensa all’attenzione positiva che Lotta Continua e Adriano Sofri riservarono a quella rivolta. Un po’ come era accaduto mezzo secolo prima a Fiume quando la sinistra rivoluzionaria del tempo, Gramsci incluso, seguì con favore la rivolta nazionalista e interventista di D’Annunzio e dei suoi legionari. Dannunziano fu lo slogan della rivolta reggina, «Boia chi molla»; ma diversi furono il clima e la statura dei protagonisti. Reggio fu il ’68 dei terroni, la banlieu dei cafoni.
La rivolta di Reggio fu un’insurrezione di segno localista su cui si depositò da un verso la polvere di ideologie rivoluzionarie accese dal clima violento ed eversivo di quegli anni e dall’altro l’eco antica di malesseri e insorgenze meridionali. Non fu una Vandea, e non ebbe i tratti cattolici e reazionari, nobiliari e contadini della jacquerie contro i rivoluzionari, anche perché scoppiò in una città e non in campagna e scoccò proprio nel giorno della presa della Bastiglia, il 14 luglio. E poi i nemici, per gli insorti di Reggio, non erano i rivoluzionari al potere, ma un ceto di moderati che rappresentavano semmai la stagnazione e il conformismo. La rivolta reggina ebbe tuttavia qualche somiglianza con le insorgenze popolari del Sud nel 1799 o con i Vespri Siciliani, per andare ancor più indietro nel tempo. E Ciccio Franco, il suo leader più popolare, evocò il fantasma napoletano di Masaniello in salsa sindacale.
La ribellione di Reggio dimostrò come il trasferimento di poteri e competenze a livello locale inneschi facilmente guerre locali e conflitti per l’egemonia territoriale. Era il tempo in cui la secessione rischiava di fiorire a sud. Seguì poi la rivolta dell’Aquila ma diverso fu il peso, le vittime e la durata di quella sommossa, nata anch’essa dalla crisi di rigetto delle Regioni e da un conflitto di supremazie cittadine. A Reggio le Regioni già mostrarono i loro peccati d’origine e le loro artificiose competenze, ma dimostrarono soprattutto che smantellando l’Italia dei prefetti e dello Stato centrale non si andava incontro ad una democrazia matura e federale, più vicina al territorio, ma ad una perdita di autorevolezza e di legittimità delle istituzioni pubbliche. La gente si allontanava anziché avvicinarsi alle istituzioni. Con le Regioni si accelerò in Italia la crisi dello Stato democratico e della repubblica, già avviata con la rivolta studentesca del ’68 e l’autunno caldo sindacale del ’69. Quella di Reggio nel ’70 apparve la terza rivolta, quella delle periferie e della polveriera meridionale contro uno Stato svuotato di compiti e di prestigio.
Dopo Reggio il Sud smise di insorgere a livello popolare, preferiì defilarsi nei propri comodi, nel clientelismo e nel malgoverno, o consegnarsi in alcune zone alla malavita organizzata. Quel «Boia chi molla», demagogico ed eversivo, non scevro di violenza, fu l’ultimo grido del Sud prima di sprofondare in quel coma da cui non si è più ripreso. È curioso pensare che la repressione violenta della Rivolta avvenne ad opera di un governo moderato, guidato da un democristiano morbido e doroteo come Emilio Colombo. Intervistato da Calabrò a distanza di quarant’anni, Colombo non è pentito di quella repressione, ma è convinto di aver fatto bene a mandare i carri armati sullo splendido lungomare reggino. Eppure non pochi furono i morti lasciati per le strade, morti civili in prevalenza, ma anche delle forze dell’ordine. Misterioso fu pure l’incidente stradale del 26 settembre 1970 in cui morirono 5 anarchici che si recavano a Roma a consegnare materiale di denuncia mai ritrovato. La stampa, la stessa stampa che era indulgente con gli scontri e le barricate dei contestatori, fu in prevalenza ostile alla rivolta reggina.
A Reggio quell’estate di quarant’anni fa si spezzò il legame già sofferto tra Sud e Stato, tra Meridione e Istituzioni, e si acuì il degrado scontroso della Calabria poi aggravato dai folli insediamenti industriali nella piana di Gioia Tauro e dai loschi errori del ceto politico, con rare eccezioni (a Reggio, ad esempio, i sindaci Falcomatà per la sinistra e Scopelliti per la destra). Pur nel suo velleitario estremismo, quella rivolta fu l’ultimo atto politico di un popolo che pensava ancora di poter cambiare la realtà con la mobilitazione, gli slogan e le barricate. Poi restarono le clientele, i clan e la defezione. Dopo la protesta venne l’omertà, dopo la rivolta venne il letargo. Il Sud boia alla fine mollò.
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