NAPOLI - È da pochi giorni in libreria «Bassa Italia», il nuovo saggio del direttore del Corriere del Mezzogiorno Marco Demarco. Qui di seguito sono pubblicati stralci dal primo capitolo.
Talvolta, diceva Totò, ho l’impressione che anche i gatti mi guardino «in cagnesco». Quanti gatti ci sono in giro? Diciamo la verità: non avvertiamo, noi meridionali, uno strano sguardo addosso? La sgradevole sensazione di un giudizio che ci precede, di una commiserazione che ci accompagna? L’impressione è che sia tornata d’attualità una questione che sembrava morta e sepolta. Di che pasta siamo fatti? È possibile, insomma, che i meridionali appartengano ad una razza a parte? Molti lo pensano e lo dicono. Altri lo pensano e non lo dicono. Chi scrive non lo pensa, ma dice che i meridionali hanno molto da farsi perdonare, e tra le tante cose anche questa storia della loro diversità, a volte subita, altre esibita, sempre tirata in ballo o per compiacersi o per giustificarsi. Da qui l’urgenza di un’autocritica meridionale. (...) Dice bene Gianfranco Viesti, il ragionamento che molti fanno è il seguente: «I rifiuti sono Napoli, Napoli è il Mezzogiorno, i rifiuti sono il Mezzogiorno». Ma non c’è da meravigliarsi. Le generalizzazioni antimeridionali hanno radici profonde. Nel Cinquecento i meridionali erano i selvaggi della porta accanto, gli abitanti delle indias de por acà. Prima ancora Roberto il Guiscardo li definiva caccarelli e merdaçoli parvique valoris. Diavoli in paradiso in età barocca, diventano lazzari in quella dei Lumi e dolicocefali nel secondo Ottocento. Infine, terroni nel Novecento delle ultime ondate migratorie. Ogni secolo un insulto. O giù di lì. Quasi a chiudere il cerchio di una secolare diffidenza, c’è poi chi offre sul piatto della polemica geopolitica il termine meridios, che almeno stempera il disprezzo nell’ironia. (...)
Il gioco dei pregiudizi e degli stereotipi è universale, si pratica da sempre e in ogni luogo, ma perché è così facile riproporlo a danno dei meridionali? Perché può apparire del tutto naturale immaginarli come una razza maledetta, o come una razza e basta, senza aggettivi? In altre parole, cos’ha in comune la generosa sensualità di Sophia Loren con la figura spettrale di Tina Pica? (...) L’idea di un’autocritica meridionale non è nuova. Nel maggio del 1990, provò a suggerirla Norberto Bobbio parlando di questione meridionale come questione dei meridionali. (...) Il primo dicembre del 2008 ci riprova allora Giorgio Napolitano, nelle vesti di capo dello Stato. «Se il Mezzogiorno non dà il senso di una forte capacità autocritica - dice il Presidente nel corso di una visita a Napoli - difficilmente riuscirà ad essere credibile». E alludendo al federalismo fiscale, aggiunge: «Non si possono denunciare i rischi e gli esiti infausti di politiche antimeridionali se ci si sottrae a un esercizio di responsabilità per quel che riguarda l’amministrazione della cosa pubblica». Ma si fa presto a dire autocritica. Chi è davvero disposto a praticarla? (...) Ammettere l’ipotesi di un’autocritica meridionale implica, tra l’altro, misurarsi con l’antimeridionalismo prodotto in casa, con l’antimeridionalismo dei meridionali. (...) È l’antimeridionalismo che dai positivisti radicali del primo Novecento si spinge fino agli elitari di sinistra dei nostri giorni. Un pensiero, a dirla tutta, che dai sociologi razzisti della scuola lombrosiana arriva fino a certi gestori dei partiti personali, passando per i tanti rami di una cultura illiberale e neodeterminista. (...) La «questione razziale» è l’idea che il Sud sia la culla di una razza inferiore per indole, intelligenza e aspetto fisico. Esplode, dopo una lunga incubazione, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, e trova i suoi teorici, come Niceforo, Sergi e Lombroso, quando a circa quarant’anni dall’Unità nazionale ci si rende conto che nel Mezzogiorno poco o nulla era cambiato, nonostante la liquidazione del potere borbonico. È allora che, in mancanza di meglio e sull’onda di un incombente pensiero positivista, si mettono in campo spiegazioni che rimandano alla diversità etnica. Niente è più rassicurante, del resto, di una semplificazione assunta come verità. Ed è così che le classi dirigenti antiborboniche assolvono se stesse.
Il Sud, ammettono, non è cambiato, ma la colpa è del popolo primitivo. Un secolo dopo la febbre razziale esplode invece quella elitaria, che a sua volta apre una nuova «questione antropologica». Non più il fatto etnico: questa volta si sottolinea piuttosto l’inferiorità culturale e civile dei meridionali. La nuova questione antropologica si manifesta compiutamente a ridosso delle riforme istituzionali che avrebbero dovuto garantire l’accesso del Mezzogiorno alla modernità, e a circa quarant’anni, anche questa volta, dalla prima di quelle riforme: il varo, nel 1970, delle amministrazioni regionali, previste dalla Costituzione e fino ad allora mai istituite. Ancora una volta, quando si vanno a elaborare i primi bilanci di questa lunga stagione di riforme istituzionali, si scopre che, nonostante l’elezione diretta dei sindaci e dei governatori e nonostante i partiti personali dei vari leader locali, il Nord resta lontano. Irraggiungibile come la linea dell’orizzonte, come l’ultimo gradino di una scala senza fine. A questo punto l’automatismo si ripete. Dopo anni di legislazioni speciali, di interventi straordinari, di programmazione negoziata, di fondi europei, e dopo la lunga esperienza del direttismo elettorale, di sindaci e di presidenti regionali eletti direttamente dal popolo, torna implacabile la stessa domanda: come mai il Sud non si è sviluppato abbastanza? Si rispolvera dunque il tema della ingovernabilità dei meridionali. Ingovernabili, si lascia supporre, perché antropologicamente diversi. Ed è così che le classi dirigenti, questa volta non più antiborboniche, ma antidemocristiane e postdemocristiane, tornano ad assolvere se stesse. In questa fase, la furia polemica del Nord contro un indistinto Sud, perennemente arretrato e privo di senso civico, finisce paradossalmente per favorirle. «Vedete - è la implicita giustificazione delle classi dirigenti - è l’inciviltà diffusa che ci ha frenato». (...)
È opinione comune che le teorie razziste nascano in ambienti conservatori e reazionari e che trovino un argine nella cultura illuministica e progressista (...) Meno indagato è il rapporto tra l’antimeridionalismo e l’essere «di sinistra». Come se, nel passato della sinistra meridionale, non ci fossero zone oscure da illuminare e, nel presente, il pregiudizio antimeridionale potesse essere circoscritto al fenomeno delle leghe nordiste, particolarmente esposte per l’antropologismo originario di Gianfranco Miglio, e per l’antieuropeismo, il localismo, l’autonomismo e la dichiarata ostilità verso gli extracomunitari clandestini. In realtà, la sinistra ha contribuito, e non poco, al diffondersi del pregiudizio antimeridionale. Lo ha fatto, prima, con il suo razzismo esplicito e motivato, quello di Niceforo e dei lombrosiani, per intenderci, e, dopo, con il suo settarismo politico, con il suo antipopolarismo, con il suo elitismo sociale, con il suo antiplebeismo, con il suo moralismo a senso unico, «divisivo», direbbe Galli della Loggia. E con i suoi sensi di colpa apocalittici per non aver realizzato il paradiso in terra meridionale. Ma più ancora, e negli anni più vicini a noi, la sinistra ha contribuito al diffondersi del pregiudizio antimeridionale governando gran parte del Sud e allontanandolo progressivamente, nella realtà materiale e nella considerazione generale, dal resto del paese. E lasciando in eredità una società molto più omologata e rinunciataria di quella trovata negli anni Novanta, quando c’era una forte opposizione politica e culturale. Molti sindaci e governatori di sinistra, esaltati nel loro ruolo carismatico dall’elezione diretta, e tutti presi da una sorta di compulsione a consumare fondi pubblici, sono bruscamente passati dall’antropogenetica dell’esordio all’antropologia dell’epilogo: dalla promessa dell’uomo nuovo, che avrebbe dovuto cambiare il Mezzogiorno, all’uomo meridionale che così è se vi pare, perché niente e nessuno riuscirà mai a cambiarlo. (...)
Marco Demarco
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1 commento:
Un siciliano, parlando con un amico:
- Sai, ieri sono stato a Milano. Incontro un milanese, parliamo del più e del meno, alla fine mi chiede: "Di dove sei?" E io: "Sicilia." E lui: "Sicilia dove?" E io: "Palermo". E lui: "A Palermo siete tutti mafiosi!" Allora gli dico: "No, mi spiace, guardi che è un luogo comune del tutto infondato." E lui mi ripete: "A Palermo siete tutti mafiosi!" "No" gli dico io "le assicuro di no, si tratta del luogo comune per antonomasia. I mafiosi sono un'esigua minoranza, le assicuro che la maggior parte dei palermitani sono tutti brave e probe persone." Lui insisteva: "Glielo dico io, a Palermo siete tutti mafiosi!!" Non ne potevo più: "Guardi, se ha intenzione di chiudere così la nostra discussione, faccia pure; ma le assicuro che lei è vittima di una visione parziale della realtà, e se vuole..." E lui: "No, glielo dico io, a Palermo siete tutti mafiosi!" Continuava!! MINCHIA! L'HO DOVUTO FARE AMMAZZARE!!!
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