Roma. “Il nascondimento – così ci dice l’ultimo superstite delle Waffen SS, appaiando sul tavolinetto ‘Segnavia’ di Martin Heidegger con il ‘Canone buddista’ – è la veste di potenza della realtà”. Pio Filippani Ronconi che nel campanello del suo appartamento ha giustamente messo tanto di corona araldica, infatti, non s’è mai nascosto. Forse il disvelamento è allora la veste di potenza del mondo che sta dietro il mondo, perché il signor conte è sempre stato quello che è. Asiatico per parte di nonna, madrileno di nascita, italiano di patria, è insignito della Croce di Ferro e quasi quasi minimizza. “Una Croce di seconda classe, non era certo la Croix pour le merit del caro Ernst Jünger. Ma cosa mai posso essere stato rispetto ai miei antenati guerrieri, io?”. Ne ha avuto uno che s’è fatto fucilare per non aver voluto gridare “vive la République!” davanti al fuoco dell’esercito napoleonico, un altro che si ricordò in un post scriptum di essere stato nominato anche medaglia d’oro, uno zio, “uncle Joseph”, nelle A ntille di quel tempo che “certo non erano il posto chic di adesso”, un padre – “l’ingegnere signor conte” – veloce con la colt da meritarsi più di una leggenda nelle Americhe di Butch Cassidy e Sundance Kid e del Mucchio Selvaggio, una madre infine, catturata nella Spagna della guerra civile, che quando viene portata “all’allegra fucilazione” rieducativa dai rossi di Barcellona, chiede al capo plotone: “Dammi il cappotto”. La storia della mamma è niente male. “Il rosso le risponde: ‘Che cosa te ne importa donna, tra poco sarai un pezzo di carne frolla’. Lei chiese ancora il suo cappotto: ‘C’è freddo, non voglio che tu possa pensare che stia tremando
dalla paura’. Il capo plotone le si avvicinò rapito: ‘Donna, tu hai più coglioni di me!’ ”. La madre aveva “occhi verdi e spirito celtico”.
E’ un soldato dunque Pio Filippani Ronconi. Forse l’ultimo: “Ma cosa mai posso essere stato rispetto a tutti i miei antenati guerrieri, io. Il più male in arnese di loro mi fa marameo”. E il signor conte appoggia il pollice al naso e, pur tradendo un leggero tremore da ottantunenne, fa: “Marameo”.
Disarmando ogni pregiudizio, offrendosi all’occhio laico e al pudore liberale, così si presenta: “Sono solo un relitto che non è potuto affondare per mancanza d’acqua”. E si potrebbe aggiungere: “E’ un relitto che non hanno saputo affondare”. Pio Filippani Ronconi che è stato comunque un potente rappresentante dell’establishment culturale accademico, è anche la più recente vittima della memoria. Si sono accorti di una sua foto in divisa (“Avevamo pantaloni da sci, la giacca germanizzata, le mostrine con le rune, berretto col Totenkopf”), hanno inviato una email al cdr del Corriere della Sera dove il conte, che è il più importante tra gli orientalisti, aveva cominciato a scrivere, e Ferruccio de Bortoli – custode, anche suo malgrado, della memoria – lo ha dovuto sospendere o meglio licenziare o, piuttosto, cancellare. In un film americano “L’allievo”, con la storia di un distinto signore in età, dal passato buio (ovviamente nazi), ci hanno fatto un racconto di bassa pedagogia buonista. Con Pio Filippani Ronconi, invece, i vicini che se lo sono visti ritratto sul giornale in divisa (quella divisa) hanno fatto solo un commento alla moglie: “Ma che bel ragazzo era il professore!”.
Il signor conte è appunto professore. Maestro all’Istituto orientale di Napoli, traduttore delle Upanishad , autore Utet e Bollati Boringhieri, collaboratore di Giorgio Colli, autorità indiscussa di quella scienza della guerra che è la notte del ΝΕΚΤΑΡ. C’è una formula vedica che rende bene l’idea. “Ayus pra tr” signica “portare la vita al di là degli ostacoli”, o meglio, “fare attraversare la morte alla vita”. Ebbe una laurea honoris causa ancora qualche anno fa. Consegnatagli democraticamente a Trieste da Luigi Berlinguer. Fece una prolusione in latino e in persiano. Di lui si sa che conosce tante lingue da far sospettare una contaminazione tale da ricorrere a un manuale d’esorcismo. Parla un tedesco vagamente barbarico, con influenze svedesi, borbotta in spagnolo, sbotta in runico, pensa in sanscrito. Declama tutti e trenta i plurali regolari dell’arabo e naturalmente anche il trentunesimo, l’irregolare. “Sono come quelli abruzzesi” dice lui per rassicurare gli stupefatti. Pratico del Tibet manco fosse l’Abruzzo, ulula nella lingua dei lupi e anche in quella dei turchi. Una volta, addormentato in una grotta, venne svegliato da una coppia. “Di lupi, non di turchi”. Conosce l’ebraico e l’aramaico. Li studiò da ragazzino frequentando la sinagoga di Roma quando era un giovane collegiale al De Merode. “Nessuno poteva mai immaginare in me la futura SS. Entravo e chiedevo: ‘Dove si sta leggendo?’. Trovavo sempre un dito gentile che mi indicava il punto del Libro”. “Da adulto, andando in giro per il mondo – perché non creda che io abbia trascorso tutto il mio tempo studiando – ho disseminato dappertutto le rune. In Africa, in Asia, nelle Americhe. Vedrà che prima o poi qualche archeologo tedesco cadrà in questa trappola e ci farà una teoria su quanto avevano girato il mondo gli antichi germani. Ho studiato la Cabala naturalmente”. Ha studiato la Cabala naturalmente.
La storia di Pio Filippani Ronconi è veramente la storia del mondo dietro il mondo. Altro che laurea. La cameriera che certo non decifra la delicata calligrafia iranica del signor conte, si raccomandava: “Se la faccia dare in medicina la laurea, ché i dottori guadagnano bene”. Questo ultimo aneddoto ce lo ha raccontato la moglie che è un bello spirito. Lei si sta divertendo in queste giornate di offensiva del politicamente corretto, squilla il telefono e dice al marito: “Wanda, ti vogliono. Sei più cercato di Wanda Osiri ormai”. In questa casa dove ci guardano gli occhi dello Scià persiano, accanto alle divinità guerriere della perfezione, da sotto il vetro della scrivania guarda anche un frate cappuccino. Un giorno un marocchino amico di famiglia si ritirò per la preghiera avendo però il cuore colmo di sconforto. Povero, senza aiuto, alzava il canto al Dio Clemente e Misericordioso quando a un tratto si trovò interrotto da un uomo in saio, forse un sufi, ma con le mani bendate, che gli disse: “Non avere pena, domani avrai il denaro sufficiente per andare a Mecca”. Turbato, il marocchino se ne tornò agli affanni della sua giornata per trovare l’indomani nella buca delle lettere una busta piena di soldi. “La lettera era stata spedita da San Giovanni Rotondo dove lui fece la prima tappa per la Mecca, era stato padre Pio a fare il miracolo”. Così ci dice la signora che ci racconta anche di certe serate mondane con il professore birichino che, “quando passa Norberto Bobbio in processione”, gli va incontro per dirgli: “Ciao, come ti va la vita?”.
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, Pio Filippani Ronconi non è mai stato iscritto al Partito nazionale fascista, neppure quando era ancora un giovane assistente di Giuseppe Tucci, il suo maestro di dottrina tibetana, quando invece che concentrarsi nella carriera tra i traccheggi, lui con Sua Eccellenza il ministro Giuseppe Bottai avrebbe discusso solo di calibro 8 e di escursioni nel Sahara. “Ero solo un soldato, niente altro che un soldato pronto ad andare laddove ci fosse un pezzo di guerra. Come mio padre d’altronde, che allo scoppio della Prima guerra mondiale lasciò le sue mandrie cornute tra la Cordigliera delle Ande e Capo Horn, regalò la sua colt a un amico e se ne andò tra plotoni scudati, quelli che con la visiera agli occhi se ne andavano a depositare candele di dinamite dentro le trincee degli austriaci”.
Squilla ancora il telefono. Il professore che a questo punto non possiamo più chiamare con il titolo accademico, ma “soldato”, che come definizione gli è più congeniale, si aggrappa alla sua katana, la spada da samurai, se la porta ai denti e la stringe per farsi pazienza. Detto tra parentesi è una bellissima spada: “E’ vecchia e cionca – dice – ma ha aperto tante teste americane”. Il soldato si fa proprio un punto d’onore della sua capacità di farsi largo con la lama. “Sì, questo sì. Sono celebre nel tirare con il pugnale, solo io tra i ragazzi dell’Esercito italiano potevo tenere testa alla bravura dei siciliani e dei calabresi con il coltello, anzi, insegnavo loro come sgozzare un uomo senza perdere tempo”.
La storia di Pio Filippani Ronconi, conte, patrizio romano, è la storia dell’ultimo soldato. Appunto: “Della Ventinovesima divisione granatieri SS, dei 1.650 uomini che rispondevano agli ordini di Carlo Federico degli Oddi, il mio comandante, ce n’è uno superstite, uno: quello che sta davanti a lei”. L’otto settembre, che lo aveva travolto nello spavento di un’insopportabile vergogna, gli fece cercare a tutti i costi l’estrema possibilità di mettere a nudo se stesso, “scheggia di morte” quale voleva essere, nell’annullamento di un rituale suicidio d’omaggio all’onore che non conosce riti. “Cercavo un seppuku” ci dice oggi, un suicidio elaborato nella purificazione. Nelle Waffen questo soldato trovò la tipica scuola di guerra, “quella a piedi dei grandi eserciti del ’700”. “Volevo annullarmi e la notizia della costituzione di una divisione italiana mi trovò triste perché dopo l’otto settembre l’Italia era solo vergogna”. Le Waffen SS furono nella notte del ΝΕΚΤΑΡ dell’ultimo anno di guerra, la legione straniera di chi aveva eletto la Germania “anima dell’Europa”. Arrivavano dal Belgio, dalla Francia, 600 uomini anche dall’Inghilterra. E naturalmente c’erano russi, lituani, ceceni, turchi, egiziani. Ovviamente indiani, tibetani, tartari. C’erano le SS musulmane a cavallo. “C’erano anche le SS albanesi – ricorda ancora Filippani Ronconi – ma erano così disordinate…”. Si sommavano, in tutto, in 38 divisioni. A Mariano Comense, davanti allo stato maggiore, al suono di quello che secondo il soldato è l’inno più bello di tutti i tempi, “Gloria di Prussia, l’inno di Federico II”, marciarono le rappresentanze di tutte quelle divisioni. Etnie, popoli e lingue di quel mondo dietro il mondo si ritrovarono sotto le insegne runiche. “Mi sembrò una scena settecentesca”. Oggi il soldato dice: “In Germania trova luogo l’anima dell’Europa. Essendo anche un ufficiale tedesco, conosco bene la mia materia. Anche se la Germania ha avuto bisogno di un’iniezione asiatica. Le SS, infatti, i migliori li mandavano in Tibet”.
C’è un capitolo che solo questo soldato può aprire, ci permettiamo di farlo sotto la forma di una domanda morbosa. A proposito di iniezione asiatica, ma Ernst Jünger, era un iniziato? “Nel senso della Thule?”. In quel senso, certo. “Sì”. E’ il vero motivo per cui Adolf Hitler non poté permettersi di mandarlo a morte? “Lo stesso motivo per cui non se lo sarebbe potuto permettere con me”, così ci è sembrato di sentire tra le parole di questo soldato che, “nel rammemoramento spirituale” ci sembra ormai il Riccardo III di William Shakespeare, e cioè il “virtuoso dell’azione”. La guerra lo ha attraversato facendolo suo. “Ero alto un metro e 78 centimetri e mezzo. Volevo andare nei paracadutisti, ma non mi presero per mezzo centimetro, non ci riuscii neppure mettendo una saponetta sotto il tallone per alzarmi di più. Me ne vergognai. Feci però la guerra nel modo migliore. Nel mio corpo si sono avventati i pidocchi e le bombe. Ho avuto tutte le malattie, tutti le smorfie della morte e anche tutti i suoi recessi: la diarrea di sangue, l’epatite, la setticemia. Per questo non ho mai permesso a nessun signorino vestito bene, quelli che vedevo nelle scuole ufficiali, di insegnare a me la guerra”. Lui incarna il fuoco di Marte: “Ma le divinità che mi assistevano nel conflitto erano soprattutto Odino ed Hermès. Uno mi dava la potenza distruttiva, l’altro invece mi insegnava a strisciare sotto il fuoco nemico per raggiungere le mie prede. Mi ha insegnato anche a rubare. Io rubavo tutto, io non avevo niente, io non mi portavo mai bagagli, tesori, soldi. La rapina era la mia condizione di spontaneità. Tutto era a mia disposizione, le armi dovevano essere mie, soprattutto le armi dei nemici, erano tutte del conte Filippani Ronconi. La mia stessa divisa era la somma di pezzi che recuperavo ovunque. Mi veniva rattoppata dalle amiche. Alla mia gamba squarciata poi, avevo attaccato lo stipite di una porta”. Una protesi degna di Riccardo III. E oggi? “Ho lasciato tutto, ho fatto cose di cui non parlo”. Ci lasciamo il sospetto che tra le cose fatte e di cui non parla ci sia tanta di quella pietas che solo un guerriero educato da Livio e da Krsn_a si può consentire. Non c’è traccia di odio in questo soldato. Riccardo III, infatti, di tutti i suoi nemici sconfitti non fa mai carne da condanna eterna, ma piuttosto ospiti. “Ho lasciato tutto” dice, e infatti non ha nostalgie. Forse solo per la frutta che mangiava negli “anni Quaranta”. La frutta che “aveva un sapore diverso”. Figurarsi allora se anche la guerra, il frutto più impossibile del divino, non ha perso il sapore della sua indicibile diversità. “Anche se noi, figli di Manu, abbiamo connaturata la morte. O Aditia, portate la nostra vita oltre gli ostacoli perché viviamo!”.
(P.But. - il foglio del 27/01/2001)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento